L’uomo che sparava ai colleghi

MILANO – Di gente con un cattivo carattere è pieno il mondo. Ma la storia di Leonardo Tanzarella si svolge su un terreno diverso: è la storia di un uomo prigioniero di un odio profondo verso i suoi simili, convinto che il mondo gli sia nemico.E pronto a reagire ad ogni torto a revolverate. Per cinquant’anni, ogni volta che si è convinto che gli venissero pestati i piedi, Tanzarella ha sparato a vicini di casa, parenti, compagni di lavoro. Uno l’ha ammazzato, uno lo ha inchiodato a vita su una sedia a rotelle, sei li ha feriti. E incredibilmente solo adesso – quando è un vecchio di settantacinque anni, ritratto con sguardo tignoso dall’obiettivo della foto segnaletica – è finito in carcere per l’ultima soddisfazione che si è tolto, mandando in coma una vicina di casa. Le ha sparato con la sua 7,65, quella che usa da sempre per regolare i suoi conti. Grazie a quella pistola si sono riaperti fascicoli impolverati dagli anni, e delitti senza perché hanno avuto una spiegazione. Se spiegazione si può chiamare l’odio incontenibile di Tanzarella per il mondo.
leonardo tanzarella
 
 

 

Leonardo Tanzarella

L’ultima puntata della saga di sangue di Tanzarella si svolge ad Ostuni, vicino Brindisi, dove il 7 febbraio dell’anno scorso viene sparata una donna di 46 anni, Concetta Andriola. Sulle prime si pensa ad una storia di mala, anche perché il genero della donna , Gennaro Basile detto Pitbull, è un giovanotto che staziona in carcere. Ma prima di perdere i sensi del tutto la donna dice che a spararle è stato invece l’anziano vicino di casa con cui aveva litigato. Lui, Tanzarella. Che se n’è infischiato delle parentele importanti della donna e ha sparato per uccidere. La 7,65 viene trovata e sequestrata. Ma il libro che si apre a quel punto sposta all’improvviso la storia venticinque anni indietro e mille chilometri a nord. Rho, periferia di Milano.

Tanzarella, che è nativo di Ceglie Messapico, era emigrato qui, e lavorava in una grande fabbrica chimica, la Vedril. La Vedril in quegli anni è teatro di fatti misteriosi. Quattro operai della fabbrica, uno dopo l’altro, vengono sparati. Il 3 aprile 1981 tale Giovanni Parrella viene colpito alle gambe. Il 16 marzo 1983 tocca a Giovanni Gioiosa, anche lui alle gambe. Il 23 dicembre 1984, antivigilia di Natale, Enrico Malena viene ucciso. Il 29 novembre 1985 l’ultimo episodio: l’operaio Michele Gatti viene sparato mentre torna a casa dal turno di notte, e inchiodato per il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle. A fare fuoco è sempre un uomo con l’eskimo e con un passamontagna sotto il cappello. <Camminava a papera> dicono i testimoni. In fabbrica è il panico, ma le indagini non portano a nulla. La catena degli agguati si interrompe, i delitti restano impuniti. i sopravvissuti si rassegnano. Sulla scia di sangue della Vedril scende l’oblio.

Eppure ora si scopre che per quei delitti un indagato vi fu: Tanzarella. Tutte le tracce portavano verso di lui. Che i delitti nascessero in fabbrica c’erano pochi dubbi. E l’unico a conoscere tutte le vittime, l’unico ad avere avuto da ridire con loro, l’unico libero dai turni al momento dei delitti, l’unico a camminare a papera, era lui. Quasi risibili i motivi di screzio. Un battibecco con Parrella, l’invidia per una promozione di Gatti, cose così. Le indagini, condotte dal sostituto procuratore Pietro Forno, puntano Tanzarella ma non approdano a nulla. Il giorno dell’ultimo delitto, quando viene ferito Michele Gatti, i carabinieri si fiondano a casa di Tanzarella a cercare l’arma che ha sparato. Non trovano nulla. L’indagine si spegne.

Eppure c’erano stati degli altri fattacci. Un altro salto indietro, ancora più lungo: 1955, Tanzarella ha ventidue anni appena. Litiga con la cognata per una bicicletta sparita, estrae il coltello, la insegue; la poveretta si rifugia da una vicina di casa. Tanzarella spara a tutte e due. E’ l’unico episodio per cui verrà indagato e condannato, ma se la caverà con poco. E infatti il suo carattere non migliora. Nel 1977 litiga con un coinquilino, tale Giovanni Pavanello. Naturalmente pochi giorni dopo, mentre torna a casa, Pavanello viene ferito: a fare fuoco, diranno i testimoni, è uno sconosciuto in eskimo e passamontagna. <Camminava con i piedi a papera>, Poi Tanzarella va a lavorare alla Vedril. E inizia l’inferno.

IL SOPRAVVISSUTO/ <Certo che me lo ricordo>

«Certo che me lo ricordo, Tanzarella. Era un asociale, un misantropo, uno che vedeva tutto a modo suo, che vedeva nemici dappertutto. Magari due stavano parlando dell’Inter o del Milan e lui credeva che parlassero male di lui. Era strano, molto strano. Quando mi avevano spostato a lavorare in quel reparto il capo mi aveva detto: Gatti abbia pazienza, la metto con Tanzarella perché qui non c’è più nessuno disposto a lavorare con lui».

Da ventidue anni e mezzo, Michele Gatti è in sedia a rotelle. «Tornavo a casa dal turno di notte, c’era una nebbia che si palpava. Si avvicina uno, tutto intabarrato, non gli si vedeva la faccia. Pensavo volesse da accendere. Invece ha tirato fuori la pistola e pam pam, mi ha sparato. Due colpi al braccio, due alla pancia. Il quinto l’ho sentito entrare nella spina dorsale. Mentre cadevo a terra ho pensato: ecco, sono paralizzato per sempre».

Da ventidue anni, Michele Gatti aspettava di sapere chi gli aveva spezzato la vita. «Da una decina di anni – a dire il vero – avevo quasi smesso di pensarci. Poi è uscita fuori questa storia di Tanzarella, dopo che l’hanno arrestato a Brindisi. Un giorno mi chiama un giornalista da giù e mi dice: lei lo conosce? Certo che lo conosco…». Eppure Gatti non punta il dito, non sembra ancora crederci del tutto. Perchè lui, a Tanzarella, non gli ha mai fatto niente di male. Non ci ha mai nemmeno litigato. «L’unico appiglio a cui ho pensato è quella volta che l’azienda fece delle promozioni, distribuì delle qualifiche, e a me venne concessa la “super specializzata“». Ecco. Appunto. É per la gelosia di quell’avanzamento, dice il mandato di cattura, che Tanzarella gli ha sparato.

«So che già allora indagavano su di lui, ma io non avevo elementi precisi. Un giorno mi convoca il magistrato e mi chiede: telefoni a Tanzarella, lo accusi, così noi registriamo le risposte, sentiamo la voce, capiamo. Ma io mi rifiutai. Non me la sentivo di colpevolizzarlo». Tanti anni sono passati, Gatti ha continuato a lavorare in fabbrica anche da paraplegico. La verità su quel colpo di 7,65 gli piomba addosso adesso, che è ormai in pensione. «Non ho bisogno di soldi, ma il conto glielo voglio presentare. Per vendetta. Per me e per Enrico Melena, che era mio amico, eravamo matti per l’Inter tutti e due, lo chiamavo Bobo come Boninsegna. Io sono finito in sedia a rotelle, ma Melena è stato ucciso. E sua moglie è rimasta da sola con due bambini piccoli».

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