L’ultima esecuzione a Milano

L’ultima condanna a morte eseguita a Milano fu emessa al termine di un processo veloce. Alle 9 del mattino del 22 agosto 1945 il giudice Luigi Marantonio — che di lì a pochi anni sarebbe divenuto popolare su quotidiani e rotocalchi come presidente del processo a Rina Fort, la “belva di via San Gregorio”, il primo processo mediatico dell’Italia del dopoguerra — dichiarò aperta la seduta della Corte d’assise straordinaria a carico del capitano Giovanni Folchi, accusato di collaborazionismo. Il capitano, un giovanottone di ventinove anni, era presente nell’aula del palazzo di giustizia di Milano. Venne interrogato. Ascoltò gli interrogatori dei testimoni. Chiese di venire messo a confronto con alcuni di loro, li contraddisse, si concesse persino qualche battuta di spirito. Alle tre di pomeriggio la Corte d’assise emise la sentenza. Poche righe scritte di pugno da Marantonio con grafia ampia e inclinata: «Dichiara Folchi Giovanni colpevole dei reati ascrittigli e lo condanna alla pena di morte».

Piuttosto rapidi, specie se confrontati ai ritmi odierni della giustizia, furono anche i passi successivi. In settembre la Cassazione confermò la sentenza di primo grado. In ottobre la Cassazione rifiutò anche la revisione del processo chiesta dall’imputato, nonostante che anche la Procura generale avesse dato parere favorevole. Nel gennaio successivo il Ministero della Giustizia — retto allora dal segretario del Partito Comunista, Palmiro Togliatti — diede il via libera all’esecuzione. Il 7 febbraio Folchi venne prelevato dai carabinieri che era ancora notte nel carcere di San Vittore e portato al Poligono della Cagnola. Si tratta del grande stabilimento che si trova in piazzale Accursio, lungo il viale Certosa, e che ospita ancora oggi il tiro a segno nazionale.

Di quanto accadde subito dopo, c’è traccia in due documenti conservati nel fascicolo processuale. Il primo, firmato dall’ufficio del pubblico ministero, attesta semplicemente che «la sentenza 22 agosto 1945 che condannava Folchi Giovanni alla pena di morte è stata eseguita alle ore 7,25 di oggi 7 febbraio 1946». Qualche dettaglio in più nel messaggio che lo stesso ufficio invia all’anagrafe del Comune di Milano: «Alle ore 7,25 di oggi 7 febbraio 1946 è morto in Milano, località Poligono della Cagnola, Folchi Giovanni, nato il 10 luglio 1916 a Milano, per ferite d’arma da fuoco a seguito di fucilazione alla schiena avvenuta in esecuzione di condanna alla pena capitale». Fine. A testimoniare la fucilazione sono un giovane avvocato, Franco Occhini, che in quei mesi tumultuosi lavora all’ufficio del pubblico ministero, il cancelliere Paolo Lamastra, e il medico legale Alessandro Taroni che firma il certificato. È la sintetica burocrazia della morte di Stato.

Quel mattino di febbraio di sessant’anni fa, la burocrazia del patibolo celebrò a Milano il suo ultimo rito. La pena di morte prevista dal codice penale del 1930 — codice ancora oggi in vigore, con alcune modifiche — fu abolita due anni dopo, all’inizio del 1948. In Italia, gli ultimi giustiziati furono nel 1947 alcuni banditi torinesi. Ma anche la storia del capitano Folchi merita di essere raccontata. E non solo perché fu l’ultima esecuzione “ufficiale” a Milano, in una città dove la giustizia sommaria della Volante Rossa e di altri partigiani sbandati proseguì invece per diversi mesi. Ma soprattutto perché nelle carte del processo al giovane ufficiale, conservate presso l’Archivio di Stato di Milano, si legge una storia italiana a tutto tondo. Nelle sei ore che il 22 agosto 1945 bastano al giudice Marantonio per processare e condannare l’imputato sfilano davanti alla Corte eroismi e crudeltà, vigliaccherie, piccole miserie, opportunismi, un campionario dei pregi e dei difetti mostrati dall’italiano medio nelle intemperie della guerra.

Ma chi era, Giovanni Folchi? Tra i testimoni a suo carico interrogati in aula c’erano anche dieci partigiani. Uno di loro è ancora vivo: si chiama Enzo Galletti, allora diciassettenne militante delle Brigate Garibaldi. «Folchi me lo ricordo bene. Grande e grosso. Era un ufficiale della Brigata Azzurra, un reparto di aviatori repubblichini che, a causa della mancanza di aerei, erano stati riciclati in pattuglia antipartigiani. In quei mesi a Milano io e il mio gruppo avevamo iniziato ad aggredire i militi per disarmarli e spogliarli, in modo da mandare anche i cappotti ai nostri compagni in montagna. Una sera a Porta Romana, in uno scontro morì uno della Brigata Azzurra. Punfete, secco. Da quel momento i repubblichini iniziarono rastrellamenti tutte le sere. Io e il mio amico Renzo Botta, che poi fu fucilato, venimmo catturati da un pattuglione che girava in tram. Ci portarono in via Pace, nella caserma dell’aeronautica, e lì feci la conoscenza di Folchi. A dirigere gli interrogatori erano in tre: il maggiore De Biase, che alla Liberazione fu preso e giustiziato; il maresciallo Vavassori, cui poi ho dato la caccia a lungo per fargli la pelle senza riuscire a trovarlo; e Folchi. Erano loro a interrogarci. Torture a non finire. Ci spegnevano le sigarette sulla pancia. Entravano in cella e ci riempivano di botte. Così, per mesi. Io resistevo pensando a Jack London e al “Vagabondo delle stelle”, un suo libro che avevo letto qualche mese prima: la storia di uno che quando lo torturano esce con la testa dal suo corpo e si mette a vagare per il cielo. Ecco, io stavo fuori dal mio corpo e guardavo Folchi che mi menava dicendo: toh, guarda cosa mi fanno».

Insieme a Galletti, davanti alla Corte d’assise, testimoniarono altri partigiani usciti vivi da via Pace. Arrivarono anche i genitori di quelli che non erano più tornati a casa. Maria Serrani, 41 anni: «Il mio ragazzo di 18 anni venne arrestato il 19 dicembre, lavorava alla Brown Boveri. Andai sul lavoro e vidi mio figlio che lo caricavano su un camion e gridai: Gian Carlo!, e lui si voltò. Egli fu fucilato al campo Giuriati. Il Folchi picchiò mio figlio in testa con la pistola. Quando mi recai in via Pace dal Folchi, questi mi disse: “Questi sono i genitori che lasciano tante libertà ai figli”. Mi disse anche: “Uno dei nostri è stato ammazzato a Porta Romana, e per uno dei nostri altri cento ne devono andare” ».

Fu per quel rastrellamento realizzato insieme alle Ss tedesche e italiane che Folchi finì davanti all’ultimo plotone d’esecuzione del Poligono della Cagnola. Ma le testimonianze dei partigiani non sarebbero bastate a farlo condannare a morte se contro di lui non fosse piovuta a sorpresa anche l’accusa di un suo commilitone, un ufficiale della Rsi che nei giorni della Liberazione ha fatto il suo ribaltone personale passando armi e bagagli nelle fila partigiane. È  questa testimonianza a dare una svolta al processo e a gettare su di esso una luce quasi surreale. Il “pentito” si chiama Luciano Fiocchi: anche lui ufficiale di aviazione, anche lui è passato dopo l’8 settembre nei ranghi repubblichini, anche lui è finito alla Brigata Azzurra. Ma al momento della Liberazione, Fiocchi fa una capriola e si trasforma in antifascista. Folchi, che è rimasto a Milano un po’ ingenuamente, e dopo il 25 aprile assiste dal marciapiede alla sfilata dei reparti partigiani, vede il suo camerata marciare inquadrato. Strabuzza gli occhi, lo raggiunge, lo prende da parte, gli chiede spiegazioni: e Fiocchi, serafico, gli racconta che quando in città sono arrivati i partigiani, lui non solo ha consegnato loro tutte le armi del suo plotone, ma ha anche spiegato di avere in cuor suo sempre tifato per la Resistenza. E si è trovato arruolato per vie di fatto.

Storie parallele, quelle di Fiocchi e Folchi: si conoscono fin dai tempi dell’Accademia, e non si sono mai piaciuti. «C’è un vecchio, piccolo rancore tra me ed il Fiocchi — racconta Folchi — originato da una cerimonia goliardica in seno all’Accademia». Basta questo, per spiegare la durezza con cui Fiocchi accuserà il collega davanti alla Corte d’Assise? Sta di fatto che dopo avere girovagato per Milano un po’ di giorni, il 29 aprile Folchi si presenta come se niente fosse al commissariato di via Brera, dove lo arrestano. E l’ex camerata Fiocchi si trasforma in implacabile teste d’accusa nei suoi confronti: «Novantanove volte su cento gli uomini per i rastrellamenti uscivano con il capitano Folchi. All’interrogatorio dei detenuti prendevano parte il maggiore De Biase, il capitano Folchi e il capitano Formosa. Nell’ufficio del maggiore c’era sempre Folchi, se talvolta non c’era era perché era andato a prendere qualcun altro. Gli avieri del comando mi informarono che Folchi aveva ucciso un patriota. L’episodio veniva riferito dagli avieri come un vanto per il loro comandante».

Sono le parole che risulteranno decisive per fare condannare a morte il capitano dell’aviazione fascista. Ma il giudice Marantonio, prima che il testimone d’accusa Luciano Fiocchi lasci l’aula, si toglie la soddisfazione di fargli una domanda che apparentemente non c’entra col processo: «Ma lei, scusi, da che parte stava?». E Fiocchi mette a verbale una risposta che è l’antologia dell’italiano fellone: «Mi arruolai nell’aviazione il 21 gennaio 1944 per evitare l’internamento. Non ho mai fatto parte di reparti partigiani. Il 25 aprile 1945 aderii al gruppo partigiano. Fino al giorno dell’insurrezione feci il passivo, cioè il men che potevo. Fino al giorno dell’insurrezione le mie idee erano quelle della maggioranza delle persone. Cioè aspettare».

 

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